Qualche decennio orsono, in una sera nebbiosa di ottobre, un giovane professore mantovano in servizio a Valeggio sul Mincio rientrava in città sull’ultima littorina proveniente da Peschiera, quando l’automotrice cominciò a tossire, piombò nel buio e si fermò di botto, proprio sul ponte di Cittadella. Il professore, unico passeggero del treno a quell’ora tarda, abbassò il finestrino e si sporse a guardare verso il Lago Superiore: nella nebbia non si vedeva nemmeno una luce, e l’aria odorava di acqua ferma. Tutt’a un tratto un gran sospiro lamentoso venne su dal buio. “E allora, si va?” chiamò il professore, pensando che il macchinista fosse sceso sul ponte a constatare il guasto.
“Et onde diavol vuoi che vada?” replicò una voce scura come la sera, vecchia come l’acqua e indistinta come la nebbia – una voce da dar la pelle d’oca.
Il professore aguzzò lo sguardo nell’oscurità, e gli parve di distinguere un movimento a mezz’aria, come un grumo di foschia rappresa che si avvicinasse sospirando. Coi capelli che gli si drizzavano sulla testa, guardò la forma scivolare verso di lui, finché si ritrovò a fissare dall’alto in basso una faccia verde e vizza, con un luccichio scuro in fondo alle orbite vuote e il segno di una cicatrice in fronte.
“Io son lo Passerino Bonacolsi,” disse l’apparizione, “già Capitano di Mantova, finché quel can di un cavallaro di un villan rifatto del Gonzaga non mi usurpò l’uffizio a tradimento, et io picchiai la zuccata fatale in un portone. Et postea, non parendogli bastante, mi fe’ sbudellare, disseccare et impagliare, tal che un lepore cacciato, e posemi a cavallo dello hippopotamo in palazzo. Tre secola vagai come un guindolo per le sale et le galerie sbodenfie di tesori et di pitture, finché a una Duchessa venne male di vedersi una momia d’intorno. Et allora, in loco di darmi sepoltura, il Gonzaga gittommi a lago – et est cosa da Cristiani, dico io? – et hora fan tre secola e moneta che son qui, col fango et li cappellacci, et l’aironi et le rane bue, et li pescioletti meretrice per tutta compagnia, et non posso nemmanco tempestare accidenti sul Gonzaga. Povero can di un cavallaro di un villan rifatto, non gli ha portato bene gittarmi a lago senza sepoltura, senza preci, et senza una parola buona, chè poi andolli tutto in fumo, casato et ducato, et palazzo et tesori et quadri, et io mi resto qui, sine requie et sine scopo, con il fango et li cappellacci, et le rane…”
E il professore avrebbe potuto giurare che qualcosa colasse giù dalle orbite vuote e lungo le guance verdi e vizze… ma mentre il Passerino rifaceva tristemente la sua litania lacustre, la littorina ebbe un sussulto, le luci si riaccesero di colpo e il motore tornò alla vita, ruggendo e sferragliando.
Il professore batté gli occhi nella luce improvvisa, e restò lì, con l’eco dei lamenti del Passerino nelle orecchie, a fissare la nebbia che vorticava via mentre il treno attraversava il ponte.
Per qualche giorno si domandò se avesse sognato tutto, ma più ci ripensava e più si dispiaceva per il povero fantasma senza requie. La domenica, per non saper né leggere né scrivere, il nostro giovanotto fece dire una messa in Santa Maria del Terremoto – per un povero defunto senza nome – e, già che c’era, comprò un mazzetto di crisantemi, si recò in bici fino a Cittadella e scese sulla riva del lago, impiastricciandosi di fango i pantaloni per gettare i suoi fiori in acqua. Ebbe l’impressione di sentire un sospiro nell’aria del crepuscolo e se ne tornò a casa, non meno dubbioso ma un po’ più soddisfatto.
L’anno dopo, nella stessa data, dopo qualche esitazione, ripeté tutta la faccenda di messa e fiori, e l’anno dopo ancora, e ancora e ancora – chè, povero Passerino, ne aveva ben fatti di secoli a dorso d’ippopotamo e poi a bagno, e un crisantemo in più non poteva fargli male – e ogni anno dall’acqua veniva il sospiro… finché, il settimo anno, quando il professore non insegnava più a Valeggio e persino la ferrovia Mantova-Peschiera era stata smantellata, ai crisantemi rispose un’esclamazione di sollievo, e di nuovo la faccia di mummia fradicia del Passerino galleggiò nella nebbia.
“Ma va’ là che ti sei proprio un buon puttello!” esclamò il fantasma, con l’ombra di un sorriso senza denti che arricciava le guance grinzose. “Sette messe per l’anima mia, et anco li fiori. Lassù han deciso che vale tal qual che una sepoltura et son libero di girmene al Purgatorio per intanto, et postea si vedrà. Già mi odo li cori dell’anime sante…”
Davanti al professore stupefatto, la faccia verdastra si faceva trasparente e la voce pareva risuonare sempre più lontana.
“Per guiderdone della tua constanzia, et come che di Gonzaga non ce n’è più a goderne, slungati un po’, che ti dico un bel secreto…”
Con la pelle che gli si accapponava, il professore si avvicinò all’acqua quanto poteva senza bagnarsi le scarpe, e si sporse ad accostare l’orecchio alla bocca spettrale. Ci fu un sussurro gelido contro la sua guancia, qualche parola da non crederci e poi più niente – solo fango, e cappellacci, e rane bue che andavano in letargo. Con le gambe che facevano giacomo-giacomo, il professore riprese la bicicletta e tornò in città, domandandosi che fare, ora che sapeva dov’erano gli affreschi del Pisanello – e gliel’aveva detto un fantasma!
Gli ci vollero due anni per decidersi a scrivere una lettera anonima alle Belle Arti, e fu una gran fortuna che il Sovrintendente Paccagnini fosse una persona intelligente e dalla mente aperta. Neanche un anno dopo, affreschi e sinopie furono scoperti in una sala del Palazzo Ducale per la meraviglia di tutti e di ciascuno.
Il professore portò la sua classe a visitare la sala appena fu aperta al pubblico e, mentre tutti guardavano estasiati la battaglia e le dame e i cavalieri antichi, i ragazzini più vicini sentirono il loro insegnante ridacchiare tra sé. “Ma va’ là, Passerino,” diceva. “Va’ là, che era proprio un bel segreto!”