Se lo chiedete a me, la tragedia è un genere sopravvalutato.
Datemi Esopo, datemi dei buoni vecchi miti, ma la tragedia… ci sono andato, alla tragedia, so quel che dico. Un po’ da lontano, ma ho visto e sentito e, credetemi, la faccenda funziona così: c’è uno mascherato da donna che strilla ai quattro venti che brutto sogno ha fatto nella nottata; intanto intorno ci sono degli altri, sempre mascherati, per niente allegri nemmeno loro; poi entra un araldo e dice al tizio mascherato da donna che l’esercito di suo figlio (“suo” della finta donna, non dell’araldo) le ha prese di santa ragione; allora cominciano i lamenti generali, e poi non mi ricordo bene, perché a quel punto ne avevo abbastanza e cominciavo a sentire il prurito di un sonnellino all’ombra e di un po’ d’insalata, in un ordine qualsiasi.
Mi par di capire che non ci siano mai tartarughe, nelle tragedie.
In Esopo, invece, è tutta un’altra faccenda. E anche nei miti. A ben pensarci, in realtà, nessuno spiega mai se quando il piccolo Hermes, prima di fabbricare la lira col guscio di tartaruga, ammazza il padrone di casa. Diciamo di no, diciamo che il guscio era già vuoto e che le tartarughe sono creature musicali, oltre che sagge e astute.
Magari le tartarughe di campagna non sono molto musicali e non hanno un gusto educato quando si parla di letteratura, e hanno anche l’accento rustico. Anch’io avevo l’accento rustico, da giovane, e infatti da giovane vivevo in campagna. E’ stato dopo, che sono diventato Chelidone di Gela. Il che non significa che viva in città: solo nelle vicinanze, ma è abbastanza per essere andato alla tragedia una volta, per aver perso l’accento e per sapere che Ierone, il nostro tiranno, è molto meglio di suo fratello.
Vero è che io ai tempi del fratello non stavo ancora qui. Ero una giovane tartaruga campagnola, allora, e non sapevo proprio niente di quello che succedeva in città. tiranni, tirannicidi e colpi di stato, figurarsi! Non è che non fossi già un tipo sveglio, ma allora m’interessavano solo le tartarughette dagli occhi birichini… beata gioventù! La vita era più semplice, prima. D’estate si dormiva all’ombra, d’autunno si mangiava a crepapancia, d’inverno si andava in letargo e a primavera ci si svegliava con tutto un formicolio di dentro e si usciva di nuovo, a mangiare valeriana tenerella e margherite finché non passava una femmina come si deve, col carapace ben lustro e lo sguardo malizioso.
Io ero baldo e vigoroso, e si vedeva già che non ero una tartaruga come le altre. La mia vecchia, buonanima, diceva che ero uscito dall’uovo in un colpo solo, tutto pimpante e con un segno strano sul guscio, e lei aveva subito pensato “Hera mia, questo farà strada!”
Poi, quando il guscio si era indurito, il segno era andato via, ma la mamma non se n’era dimenticata, e me lo diceva sempre: “Tu ne farai di strada, Chelidone…”
Vedeva lontano, la mia vecchietta, anche se non si sarebbe mai immaginata quanta strada avrei fatto. E come l’avrei fatta.
Ma mi sto perdendo pei campi d’insalata, come diceva mio nonno, buonanima pure lui. Quello che volevo dire è che anche a dieci anni, anche nella pietraia più sperduta di Sicilia, ero un tipo che si notava, e le femmine, quando mi vedevano, facevano tutte il passo languido e dei gran sospiri per farsi notare.
E quando veniva la stagione degli amori… ah, il formicolio!
Scommetto che non ci credete, ma la tartaruga è una bestia passionale e io, non dico per vantarmi, mi davo da fare. Quando mi prendeva il formicolio, non mi teneva più nessuno, e se occorreva facevo a botte con dei maschi grossi come il fondo di un orcio.
La mia vecchia lo diceva sempre: “Senti a me, Chelidone: un giorno o l’altro, le femmine saranno la tua rovina!”
Era una tartaruga di poche parole, la mia vecchietta, e non mi ha mai detto altro in vita sua: che avrei fatto strada e che le femmine sarebbero state la mia rovina. Ed è andata a finire che ci ha quasi preso: di strada ne ho fatta, e c’è mancato proprio poco che per una femmina ci lasciassi il guscio.
Capitemi, non era una femmina come le altre. Una ninfa dei campi, col carapace che pareva lo scudo di Atena tanto era perfetto, e camminava sculettando, con una pratolina che le penzolava dalla bocca come se niente fosse. Eufrosine, si chiamava. Qui a Gela le femmine sono belle, ma non ne ho mai vista una che potesse limarle gli unghioli, a Eufrosine. Neanche sull’Olimpo hanno delle femmine così!
Quindi capite, quando un maschio giovane e focoso, tutto un formicolio e un appetito, se la vede passare davanti al principio della stagione degli amori…
Immaginatevi il baldo Chelidone che, trafitto dai dardi di Eros, scatta fuori da un cespuglio di capperi e si lancia alla conquista. Sì: “scatta”. E sì: “si lancia”. Non c’è niente da ridere. Che le tartarughe siano lente è una panzana calunniosa messa in giro da gente piena d’invidia come le lepri e Achille.
Lo dice persino il Filosofo: Achille è un fanfarone e quindi, quando si mette a correre con la tartaruga, le dà un vantaggio spropositato. Le fa persino un salutino con la mano prima di partire, perché lui è il Pie’ Veloce e la tartaruga, lo sanno tutti, è una tartaruga. Sennonché, dice il Filosofo, tutti e due si mettono a sgambare e Achille prima dimezza la distanza, poi dimezza la metà della distanza, poi dimezza la metà della metà e, per farla breve, è probabile che a un certo punto la metà della metà della metà della metà della metà eccetera resti così piccola che Achille non la vede e c’inciampa. O qualcosa del genere, perché alla fine Achille mica la raggiunge, la tartaruga. Per cui, è scientificamente provato, se quel giorno fatale fossi stato il Pie’ Veloce Achille, non avrei mai raggiunto Eufrosine.
Invece, essendo io Chelidone la Tartaruga, ecco che dimezzo la distanza, poi dimezzo la metà della metà ed Eufrosine, senza smettere di sculettare, mi butta un’occhiata da sopra il guscio.
E io avanti, come Fidippide a Maratona, e la distanza si riduce alla metà della metà.
Eufrosine rallenta dando l’impressione di non rallentare per niente, come solo una tartaruga femmina sa fare.
Chelidone continua l’inseguimento, i raggi del sole primaverile traggono barbagli color dell’onice dal suo giovane carapace lustro, e la distanza tra l’amoroso e l’amata si riduce alla metà della metà della metà.
Eufrosine lascia cadere la pratolina di cui sta mordicchiando il gambo. Questo per Achille non l’avrebbe mai fatto.
Lo stomaco mi dà un balzo, un salto che neanche Glauco alle Olimpiadi, col risultato di farmi avanzare a passo di danza.
Eufrosine sculetta vieppiù.
Ecco, se non avesse sculettato vieppiù, forse, mi sarei accorto prima delle due ombre roteanti sul terreno.
Ma se anche me ne fossi accorto prima, sarei stato troppo occupato a fissare la punta della coda di Eufrosine per fare qualcosa di più che decidere vagamente “corvi in amore”.
E poi forse, se anche non fossi stato occupato con la punta della coda di Eufrosine, avrei avuto il fegato troppo in formicolio per notare che erano ombre un po’ grandi per due corvi.
Diciamocelo, se anche fossi stato in vena di ragionare sull’apertura alare dei corvi, se anche avessi capito che erano due aquile, se anche mi fossi accorto che le aquile in questione avevano in mente un pranzo di matrimonio a base di tartaruga, cosa avrei potuto fare?
Un attimo prima ero lì che rincorrevo la mia Eufrosine vezzosa, un attimo dopo ero in volo.
Neanche il tempo di ritirare testa e zampe prima del decollo.
E’ un’esperienza che non mi sentirei di raccomandare: tutt’a un tratto, la terra cade giù e indietro, gli artigli mi abbrancano il carapace e l’ultima cosa che ho negli occhi è il muso di Eufrosine con la bocca spalancata e gli occhi tondi tondi. Più che un’aria terrorizzata ha un’aria idiota.
E per un istante, lo giuro per Hermes dai calzari alati, penso che forse dopo tutto non mi sono perso granché…
Poi rinsavisco tutto d’un colpo e prendo atto delle mie circostanze. Non avrei neanche bisogno dell’occhiata che butto in su per capire.
Aquila. Malevola. Affamata. Trionfante.
Allora vengo colto da terror panico, Phobos e Dioniso-di-Cattivo-Umore s’impadroniscono di me e non solo ritiro testa e zampe, ma mi metto anche a strillare “Feu! Feu! Feu! Feu!” con tutta la mia voce.
Non è dignitoso, ma chi se ne importa. Tanto, nessuno mi sente, a parte l’aquila, e siccome l’aquila sta per mangiarmi, all’improvviso non m’importa molto che opinione si farà di me.
Perché io lo so come va a finire. L’ho visto succedere, l’ho sentito raccontare: adesso mi porta sulle rocce, poi mi lascia cadere e il guscio mi si spacca sui sassi, e allora Ade abbi pietà di me e prendimi in fretta, perché a nessuno piace essere mangiato ancor vivo. A me no di certo.
“Feu! Feu! Feu! Feu!” urlo, e tutta la mia vita mi passa davanti in un istante, penso alla mia vecchietta, a mio nonno, all’insalata, alle lotte, al formicolio, all’arbusto di capperi…
E poi si vede che siamo arrivati sopra le rocce, perché gli artigli mi mollano. Per un momento ho l’impressione di poter continuare a volare da solo, e annaspo con le zampe cercando di librarmi, ma non dura. Non so bene perché le aquile siano capaci di farlo e le tartarughe no, ma è subito chiaro che non resterò in aria a lungo.
“Tòi tòi tòi!” strillo, e chiudo gli occhi per non vedere, come se da dentro il guscio potessi vedere qualcosa…
Il vento che fischia, lo stomaco che vuole assolutamente uscirmi di bocca, il peso del guscio che mi trascina giù, giù, giù…
“Otototototoiiiiiiiii!!”
Schianto raccapricciante. Secondo tonfo un po’ (ma solo un po’) più morbido. Giù rotolon rotoloni per un po’. Giungo ad un completo arresto.
E comincio a domandarmi se sia nell’Ade o nel Limbo. O forse sono stato tanto buono in vita e sono nei Campi Elisii? Ipotesi da non scartare, perché altrimenti come potrebbe il mio carapace essere ancora intero?
Ammaccato, sì. Dolorante, sì. Spaccato, no.
Quindi adesso torna l’aquila e mi fa fare un altro volo panoramico? Non che formuli proprio un dubbio così articolato, ma sono una tartaruga intrisa di cultura greca, e quindi penso filosoficamente anche quando la testa mi gira come una conocchia e mi viene da vomitare e le zampe mi fanno patroclo-patroclo e tutti attorno gridano “Eschilo! Eschilo! Eschilo!”
Per un po’ resto dove sono, cercando di capire se la terra è sopra o sotto di me, e scopro che sono finito sul guscio. Brutto.
“Eschilo! Eschilo! Eschilo!”
Vorrei dire loro, chiunque siano, di non addolorarsi più del necessario, di gioire con me del fatto che la mano pietosa di un dio ha frapposto tra me e la morte qualcosa di duro, sì, ma non duro come una roccia.
“Eschilo! Eschilo! Eschilo!”
Soprattutto, se ne avessi il fiato, vorrei supplicarli di non fare tanto baccano e di girarmi sulla pancia, per favore.
E poi c’è il fatto che io non mi chiamo Eschilo.
“Maestro, oh maestro!”
“Il più grande dei tragediografi!”
Mi sa che non sia di me che si preoccupano.
“Il veterano di Maratona!”
No, decisamente non di me. E la cosa potrebbe anche seccarmi, ma considerando che la presenza di tutti questi bipedi ululanti probabilmente ha messo in fuga la mia aquila, decido di chiudere un occhio metaforico sulla loro mancanza di tatto e di aprirne uno letterale.
“Eschilo!”
Faccio capolino e apro un occhio, appunto. Uno solo, perché l’altro l’ho sbattuto contro qualcosa di duro, credo il mio stesso guscio, e me lo sento già tutto gonfio. E quando ho aperto l’occhio, li vedo, seppur capovolti: cinque o sei mammiferi che si strappano i capelli e si agitano attorno ad un sesto o settimo mammifero steso per terra con la testa spaccata come un melone, se mi passate l’immagine un po’ cruda.
Mi sa tanto che quello sia Eschilo.
E mi sa tanto che lo schianto raccapricciante…
“L’Oracolo di Delfi l’aveva predetto!” vociano i mammiferi e io, pur nel mio comprensibile stato di confusione, penso tra me che non ci voleva un oracolo a capire che il guscio di tartaruga è più duro del cranio umano.
“Una saetta dal cielo!”
“Era per questo che non usciva mai nella stagione dei temporali…”
“Ma non si sfugge al fulmine di Zeus!”
“E che può mai il mortale, per quanto grande la sua gloria, quando il dio dall’Olimpo cinto di nubi invia il suo messaggero alato?”
“Oh, Eschilo! Eschilo! E non siamo nemmeno in stagione di temporali!”
No, però siamo in stagione degli amori.
Quando le tartarughe vanno in amore e le aquile vanno in amore e tutti vanno in amore. A questo si vede che Eschilo non ci aveva pensato, con tutto che era il veterano di Maratona e il più grande dei tragediografi.
L’ho scoperto dopo, che la tragedia con la gente che si lamentava era sua e, ve lo assicuro, in quella non c’era nessunissimo in amore. Quando si dice lasciarsi sfuggire i dettagli. Ma è anche vero che gli oracoli sono tutti un imbroglio e un gran traffico di quattrini, e nessuno si aspetta il tribunale delle Erinni.
Nel senso di una tartaruga che piomba dal cielo.
Queste, comunque, sono considerazioni che faccio adesso, pensieri da tartaruga vecchia, saggia e sofisticata.
Al momento annaspavo sulla schiena, avevo il mal di testa della mia vita e un’arpia per scaglia: i mammiferi avevano caricato il defunto Eschilo su una specie di barella e se lo stavano portando via, in un delirio di guaiti e lai, ma uno, nel dubbio che Chelidone non avesse già avuto una giornataccia, aveva trovato il tempo di assestarmi un calcio e di chiamarmi vilissima tra le bestie, indegna lama delle Parche e sterco di Titani.
Massì, diamo addosso alla tartaruga, come no! Colpa mia se, mentre amoreggio beatamente, Zeus manda la sua aquila a scaraventarmi sulla testa di un poeta rimbambito che non ha neanche il buon senso di dar retta all’Oracolo di Delfi!
Se ne avessi il fiato, farei una pernacchia al corteo funebre, ma tutto sommato ci rinuncio. Tanto più che la pedata del mammifero mi ha fatto rotolare sulla pancia e questa non è una cattiva cosa. Ritiro le zampe e la testa nel guscio e decido di fare un sonnellino lì dove sono: non so neanche se sono al riparo, e non m’importa un fico secco. Voglio solo dormire, sperando che mi passino batticuore e mal di testa.
E poi basta.
Qui finisce l’evento che mi ha cambiato la vita. A casa non ci sono più tornato, perché ho trovato che a Gela si sta bene, E poi qui sono famoso. Sono passati dieci anni dalla giornata in cui ho imparato e disimparato a volare, ma tutti mi chiamano ancora Chelidone Keraunos, vale a dire Chelidone la Saetta. Nei pomeriggi d’estate, i tartarughini appena usciti dall’uovo vengono a guardare le ammaccature del mio carapace e a farsi raccontare tutta la storia, anche tre volte di fila, finché le madri non vengono a riprenderseli. E, mi compiaccio di dirlo, le madri mi fanno ancora l’occhio languido. Ma per carine che siano, io me ne resto all’ombra e al riparo. Dovrò rimbecillirmi del tutto, prima che dia retta un’altra volta al formicolio e mi avventuri dove un’aquila può vedermi!
Un po’ di tempo fa ho saputo che a Eschilo, pover’anima, hanno fatto una tomba con un’iscrizione che aveva dettato lui. Quando era ancora vivo, si capisce.
Sono andato a vederla, e l’iscrizione dice:
“Eschilo, figlio di Euforione, copre questo sepolcro. E’ morto a Gela feconda di messi. Il suo strenuo coraggio può dichiarare il bosco di Maratona e il Medo chiomato, che ne fece esperienza”.
Peccato che non sapesse prevedere il futuro. A volte penso che, se solo la Pizia fosse stata un po’ più chiara, l’iscrizione dovrebbe essere così:
“Eschilo, figlio di Euforione, copre questo sepolcro. E’ morto a Gela feconda di messi. Il suo strenuo coraggio può dichiarare il bosco di Maratona e il Medo chiomato, che ne fece esperienza. Il suo fato, annunciato a Delfi, è giunto sulle ali del messaggero di Zeus: Chelidone Keraunos, la Tartaruga.”
Ma a questo mondo non c’è giustizia, checché se ne dica, ed è sempre così che va a finire: nessuno ci bada mai, alla tartaruga.
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